
Spiare le chat di WhatsApp è reato: la sentenza della Cassazione chiarisce i confini della privacy digitale
Nel contesto dell’avanzare delle tecnologie digitali e della crescente centralità della privacy nelle comunicazioni personali, la sentenza della Corte di Cassazione del 5 giugno 2025 segna una svolta fondamentale nella tutela delle conversazioni private. In particolare, la Corte ha chiaramente stabilito che l’accesso non autorizzato alle chat WhatsApp di un’altra persona, persino tra ex coniugi o partner in causa di separazione, costituisce un reato grave: l’accesso abusivo a sistema informatico. Questo principio si inserisce in una cornice giurisprudenziale ormai consolidata che equipara la messaggistica digitale agli strumenti di corrispondenza tradizionali come lettere e comunicazioni postali. Nel caso all’origine della pronuncia, un uomo aveva sottratto messaggi privati rivestendo comportamenti molesti e utilizzando in modo illecito le conversazioni a fini processuali. La Cassazione ha ribadito che WhatsApp è a tutti gli effetti un "sistema informatico protetto", il cui accesso è consentito soltanto al titolare e previo esplicito consenso. L’assenza di autorizzazione rende la condotta penalmente rilevante, a prescindere dalle finalità — anche se collegate alla raccolta di prove in giudizio — segnando così un limite fermo a tutela della riservatezza digitale di ciascun individuo.
Sul piano normativo, la sentenza trova il suo fondamento nell’articolo 615-ter del Codice Penale, che punisce con severe sanzioni l’introduzione abusiva in sistemi informatici protetti. La pronuncia ribadisce che lo smartphone, le app di messaggistica e tutti i dati digitali rientrano pienamente in questa definizione, facendo decadere ogni alibi basato su esigenze difensive o di ricerca della verità in ambito processuale familiare. In concreto, le prove digitali raccolte senza consenso tramite accesso illecito sono inutilizzabili e, in più, determinano il rischio di condanne fino a 10 anni in caso di aggravanti come la reiterazione del comportamento, l’utilizzo dei dati ottenuti in giudizio e la sussistenza di ulteriori condotte moleste. La Cassazione vuole così rafforzare sia la certezza giuridica che la deterrenza sociale, proteggendo in modo esplicito la privacy digitale quale diritto fondamentale in una società ormai dominata dallo scambio di informazioni online. L’orientamento è coerente tanto con la Costituzione quanto con il GDPR europeo e altre normative che tutelano l’inviolabilità e la protezione dei dati personali contro ogni forma di arbitraria intrusione.
Di conseguenza, le implicazioni pratiche di questa sentenza sono profonde sia per i cittadini che per gli operatori del diritto. Risulta vietato, senza consenso, accedere al telefono o ai messaggi di partner ed ex partner, utilizzare chat private come prova in sede giudiziaria, diffondere o pubblicare documenti digitali e installare spyware o strumenti di controllo. Le vittime possono agire legalmente per ottenere tutela e risarcimento, nonché richiedere la cancellazione delle prove raccolte abusive e le relative sanzioni penali a carico del responsabile. Avvocati e parti in causa devono quindi rivedere prassi e comportamenti abituali, evitando iniziative potenzialmente illecite e orientandosi verso una gestione delle vicende processuali che rispetti pienamente i confini della privacy digitale. In sintesi, la sentenza del 2025 inaugura una nuova stagione di protezione per la riservatezza nelle comunicazioni digitali, fungendo da monito contro ogni forma di «spionaggio domestico» e consolidando il diritto all’autodeterminazione informativa come presidio imprescindibile nell’era tecnologica.